Nel gioco della sedia i bambini stanno seduti, ognuno su una sedia, pronto ad alzarsi non appena la musica inizia, per poi sedersi quando cala il silenzio, ma ogni volta che la musica riparta, una sedia viene tolta. La sedia mancante fa affrettare i bambini nel prendere posto non appena la musica si spegne. Il vincitore è chi riesce sempre a stare seduto. Ma i bambini crescono e i loro giochi si trasformano in gioghi: le sedie non mancano ma spesso sono vuote, ci si affretta per non stare seduti mai e si resta in piedi, da soli. La sconfitta di chi sta solo in piedi nel gioco della sedia è una sedia mancante, la sconfitta di chi sta solo in piedi nel giogo della sedia è una sedia vuota. Mancano le persone, non le sedie. Sedie vuote, sparse nel disordine del giogo di chi ormai è cresciuto e non gioca con le sedie, ma le sedie si prendono gioco di lui, ricordandogli la propria solitudine. Essere soli è stare in piedi, perché la solitudine non ha pace, non si accomoda mai, non è comoda. Se la sedia mancante nel gioco è un vuoto a vincere, la sedia vuota è un vuoto a perdere. Perdersi e stare in piedi, tra le sedie vuote, soli come “quando si ama, perché quando amiano siamo soli con il nostro amore”.
Ci sono tante sedie vuote sul palco, Truman Capote parla con il vuoto della sedia, parla di una cosa chiamata amore, è un dialogo infinito perchè non ha inizio, perché rimane un eterno monologo nella finzione di un interlocutore. Storia di una solitudine che resta in piedi tra sedie vuote. Truman Capote si svela, cambia d’abito, e si rivela nel ricordo del dramma di un uomo che racconta, raccordando i frammenti dei ricordi della suoi vita, seguendo il filo sottile del suo amore, una cosa vuota, come una sedia.
Al Teatro Vascello si è conclusa il 9 aprile la rappresentazione di “Truman Capote questa cosa chiamata amore” di Massimo Sgorbani e Gianluca Ferrato: la scena si veste del contrasto cromatico di bianco e nero per investire lo spettatore con la contradditorietà di un personaggio che dice contro tutti e tutto per irrompere nel vuoto che lo circonda con una dissacrante prosaicità. La provocazione continua richiama l’attenzione attraverso aneddoti divertenti, confessioni intime, spiegazioni irriverenti: Gianluca Ferrante concretizza perfettamente con la propria passionalità istrionica un artista camaleontico che sfugge a qualsiasi definizione, seguendolo attraverso una vita stravagante e spregiudicata, muovendosi nelle sue vicende fino a commuovere il pubblico.