Home teatro Un Mamet al sapore di Proust all’Eliseo per una stagione epica

Un Mamet al sapore di Proust all’Eliseo per una stagione epica

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«Che il denaro non abbia colore è falso. Un modo del tutto nuovo di guadagnarlo conferisce qualcosa di nuovo alle monete sbiadite dall’uso». Diceva Marcel Proust.

Ed è il denaro la leva archimedea che permette a Mamet di costruire una impalcatura per tenere in piedi una storia che, a conti fatti, oggi non ha niente di “teatrale”. Sergio Rubini ne cura la regia, e guida un gruppo affiatato. Sul palco Gianmarco Tognazzi, Francesco Montanari, Roberto Ciufoli, Gianluca Gobbi, Giuseppe Manfridi e Federico Perrotta.

Al pubblico italiano la storia può dire poco. Essendo passati per “Esposizione universale” di Squarzina, andato in scena all’India la scorsa stagione, e avendo visto “Morte di un commesso viaggiatore”, all’Argentina, sempre la passata stagione, non si può dire di essere rimasti colpiti per il “plot”.

La regia, che cerca di dare una rivisitazione epica a un dramma che di epico ha poco, risolve la tensione teatrale in momenti di attesa che si stemperano in atti di comicità fisica, che devono tutto alla bravura di Rubini, che è sul palco insieme alla sua squadra, ma anche grazie alla eleganza sinfonica di tutto l’ensemble.

Il problema da affrontare, oggi, non è la solita ritrita metafora del denaro merce denaro che oblitera la coscienza, come se noi fossimo fermi ancora a qualche giorno degli anni ’70, oggi i temi da portare sul palco dovrebbero essere altri.

La regia è stata lucida. A tratti perfetta. Ogni singolo attore, pienamente consapevole del potenziale comico del proprio personaggio, è riuscito a splendere sul palcoscenico. Lì dove la storia a volte sbiadiva.

Non si resta basiti. Non si rimane colpiti da un messaggio che non c’è. O che, se si vuole, ci si deve impegnare per trovare. Si ha solo la conferma che «nell’umanità la regola, soggetta naturalmente a qualche eccezione, è che i duri sono dei deboli di cui gli altri non si sono curati, e i forti, indifferenti che ci si curi o meno di loro, sono i soli a possedere quella dolcezza che il volgo scambia per debolezza».