Quando ci si avventura nel teatro tedesco dell’800 c’è sempre il rischio di sfociare nell’inattuale, nel politico, nel propagandistico. Con Georg Büchner la situazione si complica ancora di più, si insinua la violenza, il nazionalismo, l’egotismo. Già avvezzo a lavori ad ambientazione storica, suoi sono i film Noi Credevamo e Il Giovane Favoloso, Mario Martone si avventura coraggiosamente nel testo e trasforma la veemenza politica del drammaturgo tedesco in energia positiva, porta in scena un cast numerosissimo e pieno di energia che si lascia manovrare da un regista un po’ burattinaio e un po’ matematico, ma allo stesso tempo non restio a lasciare spazio al potenziale dell’interprete.
Il regista disseziona l’opera individuandone gli svariati nuclei interpretativi, ritenendo che l’unico modo per poterla rappresentare nel XXI secolo sia desistere dal tentativo di attualizzarla, fuggendo la tentazione dell’allusione alla politica contemporanea. In questo spettacolo si riflette sul ruolo dell’uomo nella società e soprattutto sull’atteggiamento da assumere di fronte a se stessi. Ma non solo. Ancora più addentro si dipana una riflessione ulteriore: il ruolo del teatro e la sua rivoluzione nell’Ottocento, la necessità di altri meccanismi o di un potenziamento degli stessi che, non più contenibili nel palcoscenico, strabordano nella platea.
I due protagonisti reggono la scena come due pilastri, in un gioco delicato di equilibri che nelle loro sapienti mani risulta incredibilmente fluido. Da un lato c’è Battiston che fa del physique du role la sua virtù: il suo Danton è un eroe goliardico, una figura dall’elasticità accattivante con cui dialoga sia il popolo che il pubblico; dell’attore come del personaggio risalta la profonda umanità. Al polo opposto c’è il camaleontico Paolo Pierobon, un animale da palcoscenico che si modella sui suoi personaggi. Si muove calcolando i passi e i respiri, quasi un sussurro la sua voce, tagliente come una lama, un sibilo di serpente che si insinua sotto la pelle dello spettatore.
Ventinove personaggi in scena, ventinove solitudini. Buchner ne sarebbe stato ben contento. Il suo intento era infatti quello infatti di denudare l’animo umano, di denunciare la mostruosità che si cela nelle sue viscere. Davanti agli occhi del pubblico viene scaraventato l’incorruttibile Robespierre, infestato dall’incubo del vizio, dalla paura di desiderare e dal terrore di scoprirsi uomo. Così Danton, uno dei padri della rivoluzione, è ormai disilluso, divorato da sé stesso, deluso dal popolo. Il popolo della rivoluzione francese, forza della coesione per antonomasia, è qui spodestato di tale titolo, diventa una turba sconnessa che si muove con il vento, dominata allo stesso modo degli aristocratici dai vizi, dal pettegolezzo, dalla facile infatuazione.
La femminilità nello spettacolo ha un ruolo centrale e apre uno dei frammenti più preziosi della rappresentazione. Ad essere messe in scena sono le donne forti del popolo e le fragili aristocratiche, ma dietro la forza c’è la sofferenza e dietro la fragilità le elucubrazioni della consapevolezza. Il monologo di Marion e la morte di Julie aprono degli spazi atemporali, scorci di delicatezza in un mondo dominato dagli uomini e dalla forza.
I sipari che compongono la scenografia si aprono verso l’interno, una, due, tre volte. Scoprono un universo sempre più intimo, fino all’ultimo livello che è lo spazio della riflessione, quello che si guarda dal buco della serratura. Le tende si muovono con leggerezza, come una carezza che invita il pubblico ad avvicinarsi, ma presto si trasformano nella lama inesorabile della ghigliottina. Da complici e compagni, gli spettatori si trasformano in voyeur impotenti: non si può distogliere lo sguardo dal deperimento dell’uomo e non si può fare nulla per evitarlo.
Quello che resta non è la Marsigliese dei giorni gloriosi, ma solo una vecchia nenia cantata da un’Ofelia che si butta fra le braccia della morte ad occhi spalancati. George Buchner, uno dei geni più enigmatici del teatro, ci ha consegnato poco prima della fuga dalla Germania un’opera impossibile, una sfida, ma anche la speranza di riuscire ad affrontare finalmente il teatro degli orrori della storia e i demoni che vi si agitano dentro. Mario Martone ha raccolto questa sfida senza paura, sostenuto da un cast potente ha creato una camera delle meraviglie e imbastito una sceneggiatura che vira con destrezza dalla commedia dell’arte al dramma psicologico.
Mila Di Giulio