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“Yerma”, la rilettura di Lorca che non convince

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Provocare è un’arte. Essere provocatorii una condizione sterile. Stavolta al Teatro Vascello di Roma si sono fermati al secondo punto. La messa in scena di “Yerma”, lo spettacolo di Federico Garcia Lorca, adattato da Roberto Scarpetti, con la regia di Gianluca Merolli, che ha vestito anche i panni dell’attore, è stato una prova di teatro discutibile.

Tante le critiche che si possono muovere a un testo proposto in modo esageratamente provocatorio: dall’assenza di vestiti, per il lavoro minimo del costumista, che non ha prodotto nessuno scompiglio, tanto meno nessuna profonda riflessione filosofica, ma ha lasciato tutti senza una plausibile spiegazione, a una lunga, troppo lunga teoria di simbolismi che davano allo spettatore il compito di interpretare praticamente ogni momento dello spettacolo.

Fuori luogo la citazione della Cirinnà. Lanciata senza dialettica nell’agone teatrale; la sterile provocazione di una clinica SS Cirinnà si può dire l’emblema di uno spettacolo fine a se stesso che, fino al momento dell’apparizione di un vescovo inutile, era quasi bevibile.

Ma l’apparizione di un momento teatrale così fuori luogo, tagliato male e impostato male, ha inferto un duro colpo a uno spettacolo già traballante. La presenza di un ammiccante pretino, tentativo di attaccare forse, senza però nemmeno uno straccio di base culturale e dialettica, che non fosse forse già “pensata”, è stata solamente un dazio da pagare forse a una forma di pensiero mainstream? “Attacchiamo Chiesa e burattini, tanto fa sempre sorridere”. Insomma, citando Karl Kraus: «I tratti fisiognomici di questo spettacolo devono aver condotto una vita abbastanza spericolata».

Bravi gli attori. Elena Arvigo ha dimostrato una pazienza eccezionale nel sottoporsi a uno stress fisico respiratorio: encomiabile la pazienza con la quale si è fatta travolgere da una doccia di polvere inspirando a pieni polmoni tutto quello che c’era da respirare. Enzo Curcurù, Giulia Maulucci bravi anche loro. Un encomio a Maurizio Rippa e al suo “Stabat Mater” d’apertura.

La scenografia di Alessandro di Cola era efficacemente costruita. Un applauso convinto va alle luci di Pietro Sperduti. Resta, però, che ci si aspettava di più.