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Massimiliano Davies, autore di “Arance amare”, racconta a B in Rome la sua poesia, le sue parole

1964

Il linguaggio di Massimiliano Davies, i suoi colori e i suoi profumi. La poesia di “Arance amare” si presenta al pubblico di B in Rome con le parole dell’autore.

 

La prima domanda che vorrei porLe è rispetto alla poesia stessa. Ho letto che ha avuto diversi maestri spirituali, quali ad esempio figure dal calibro di Cesare Pavese, Pier Paolo Pasolini e Amelia Rosselli, autori che si sono addentrati profondamente in questo piccolo mondo che è la poesia. Come pensa che possa essere definita la poesia oggi,  e come si è sviluppato nel tempo il Suo rapporto con questa forma d’arte?
Nonostante quello che si potrebbe pensare, credo che al giorno doggi si scriva molta più poesia di cinquantanni fa. Moltissimi si cimentano in questa forma darte, spesso quale semplice sfogo personale, da non divulgare, altre volte cercando una pubblicazione in quella galassia che è la piccola editoria italiana, oppure mediante lautopubblicazione. In passato la poesia apparteneva a una élite culturale ben definita e chiusa, oggi una massa enorme di persone scrive e ha la possibilità di divulgare la sua opera tramite strumenti che fino a poco fa non esistevano.
Quindi si scrive più poesia, e se ne legge di più, probabilmente; ciò che diventa difficile è riuscire a individuare in questo orizzonte pulviscolare dove risieda la vera Poesia, gli autori più rappresentativi della poesia contemporanea. Ho da poco scoperto che la televisione italiana ospitava ancora nel 1990 poeti tra i piu`significativi della seconda meta` del `900 quali Andrea Zanzotto, Elio Pagliarani, Franco Loi e altri; oggi questo non accade, forse anche perché va scomparendo il ruolo militante da sempre legato a molta parte della intelligencija italiana.
Per quanto riguarda il mio rapporto con la poesia, mentre ho scoperto precocemente di avere una passione per la letteratura, i primi timidi tentativi con la scrittura li feci verso la fine del liceo. Rimasi rapito dalle infinite possibilità della parola, e capii che, nel bene e nel male, la poesia mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. E` appena uscito il mio primo libro, “Arance amare”, che raccoglie poesie scritte negli ultimi sette anni e sono felice di aver pubblicato con la Edizioni Ensemble e del rapporto umano e diretto instaurato con il direttore editoriale, Matteo Chiavarone.

 

Una particolarità che mi ha molto colpito è stata la presenza costante dei colori. Quale ruolo ha per Lei il colore nella vita, e più precisamente nella Sua poesia?
In diversi luoghi di quella realtà parallela che vuol essere “Arance amare” vi è questa presenza di colori puri, non diluiti: bianco, rosso, giallo, nero. Hanno la funzione di prima impostazione cromatica, stendono lo sfondo basico sul quale si stagliano i Simboli e gli uomini, fratelli nella solitudine. Si privilegia il senso della vista, luomo come homo videns, rimarcando laccento prettamente descrittivo e realistico assunto a tratti dalla voce poetica. Alcune mie poesie non sono altro che istantanee
In altre i colori, attraverso la vista, sono il primo referente della esperienza interiore. Così, smarriti in una cittadina costiera locchio corre su gli onnipresenti dettagli, sui muri, sui cornicioni, sui vicoli brucianti di sale, e allo stesso tempo sisenteil mare, che sappiamo essere poco distante, perché tutti gli oggetti, spettatori come noi, parlano di mare. E` attraverso gli oggetti che lo viviamo.
Talvolta  il rapporto tra colore e sensazione è talmente stretto da sfaldarsi, i contorni sfumano, così che il sentimento arriva a coincidere con il colore stesso: Bianco:/ banale veste di senso/ di un sentimento fisiologico/ che è oltre il ventre/ oltre queste mura/ oltre i colli/ oltre i boschi: si sfoga nelle nocche/ esplode in un rigurgito/ di poesia.
Il colore, e soprattutto la luce di un certo colore che è larancione, è la vera forza creatrice che vivifica gli elementi del paesaggio lirico di “Arance amare”, impulso primario del loro movimento, combatte la stasi, dona speranza; così allexplicit diEnnui: Ma questuomo non si annoia:/ dietro langolo c’è chi vive/ sconosciuti si toccano, si parlano,/ sorridono un poco, senza paura;/ ora anche questuomo/ è acceso da uno spicchio di luce/ e brilla piano nel pomeriggio tiepido.
Una luce capace di illuminare anche il più remoto angolo buio che tutti custodiamo.

La presenza di una visione corale fa sentire il lettore parte dell’esperienza che Lei porta attraverso i Suoi versi. Questo “noi” che ricade spesso, a chi si riferisce?
Questa domanda centra un punto fondamentale di tutta la mia opera. A mio parere una delle caratteristiche più originali della mia poesia è proprio l’uso del noi quale soggetto. Non è solo un espediente comunicativo volto ad avvicinare ancor di più il lettore all’opera, ma esplicita una certa concezione della poesia quale canto collettivo. Sicché il poeta si trova ad essere soltanto l’interprete di una realtà che è già a monte condivisa, continuamente, ancor prima che inizi a scrivere; la sua voce non è che una delle tante del coro, tende a con-fondersi con le altre. Chi scrive cerca di uscire di scena, o di restare sullo sfondo, di modo che i suoi versi possano assolvere alla loro funzione ultima di linguaggio universale.
“Ma la mano// tende sempre al cielo:// in preghiera, a chieder perdono,// al cielo le dita del moribondo,// al cielo le mani degli amanti: //come una ribellione,//  come una supplica, // come una disperata ricerca di Dio”.  C’è in questa raccolta un dialogo ripreso in diversi versi tra l’uomo e Dio. Come potrebbe definire l’uomo, gli uomini, le donne riportati in questi versi? E che accezione ha in questa raccolta questo Dio?
Lei cita dei versi presi daMani: questa poesia esordisce con toni molto cupi, esprime il modo beffardo con il quale la vita sembra prendersi gioco di noi, delle nostre aspettative: il cielo ci tiene/ una zampa sulla fronte,/ ci spinge nel fango: che devesser vita amara/ questo crudo odore di primavera…”. Una forza inarrestabile che ci spinge in basso, a terra, verso linorganico; simmetricamente, mentre crolliamo in preda alla passione, alla fede, alla morte, la mano tende verso il cielo. Lumano sta tutto qui, nel gesto supremo della tensione spasmodica, sia diretto alle cose terrene che al trascendente. Questo terribile desiderio di voler cogliere di più, dirigersi verso laltrove, di superarsi, riflette anche ciò che è la poesia: tentativo superbo e perennemente insoddisfatto di definire lindefinibile. Questo sforzo ha qualcosa in comune anche alla mia idea di fede, intesa in senso dinamico di ricerca di Dio, che si realizza e passa attraverso il dubbio, spesso angoscioso. In questottica atterrisce sia una concezione di fede come accecamento, una alienazione in forza della quale non si è più qui, sia una sicura negazione della sua esistenza. La ricerca di Dio avviene mediante unopera personale e instancabile di costruzione e destrutturazione, di crescita, non si accontenta di una scommessa pascaliana. Sempre restando a terra, occorre guardare la realtà senza trascurarne gli aspetti più nauseanti: solo allora si è davvero liberi. Denudata la realtà del suo senso precostituito, possiamo eventualmente attribuire ad essa un senso nuovo.

Ester Schiavone