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Carl Craig and Synthesizer Ensemble, quando la resistenza si fa musica

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«La fantasia assembla tratti dispersi per costruire un oggetto nuovo. L’immaginazione si stabilisce al centro di un oggetto reale».

Scriveva così Nicolas Gomez Davila. Pensatore sudamericano. Una fantasia che assembla, costruisce, organizza però diventa intelletto. Potrebbe, addirittura, finire nell’essere Ragione. Ma, allora, come può convivere con l’immaginazione?

Può, e anzi, deve convivere; anzi, c’è bisogno oggi più che mai di immaginazione e ragione al potere, perché talvolta sembra che prevalga l’esatto opposto di entrambi questi poli: l’incubo e la follia.

Ma un’isola di concordia c’è, ed il Romaeuropa Festival che, con uno sforzo encomiabile, porta a Roma una turbinio di idee nuove, di idee che fanno da garanzia per un mondo che è di là da venire e che, però, è alle porte.

Questa sera è andato in scena, al Parco della Musica, Carl Craig e i Synthesizer Ensemble, uno spettacolo singolare, uno show al quale bisognava o prepararsi definitivamente, o al contrario, entrare in sala asciutti da ogni idea preconcetta.

Nel mio caso si è trattato del secondo caso. Ma superato l’imbarazzo del neofita, l’apertura musicale che si è fatta strada nella sala, investendo di colpo lo spettatore dapprincipio moderato, alla fine entusiasta, è diventata centrale. Un’apertura verso un notturno che è diventato violento, e delicato. Violento nei ritmi tribali e ossessivi che sfiorano il mantra Craig, oppure anche delicati, come quel dolce “notturno”, che il pianista Francesco Tristano ha creato in sala con il suo pianoforte rialzato, durante un breve a solo. Un notturno delicato, che non ha però cozzato con il dna di quel corpo informe e colorato che è stata la serata.

La platea era irretita da quel suono oscillante, ripetitivo. Chi conosceva già la poetica della musica elettronica non ha stentato a sentirsi a casa, ma per chi, al contrario, era nuovo a questo mondo, è apparso chiaro che si tratta forse dell’ultimo baluardo di resistenza che ci è rimasto.

In un movimento musicale che può e che, anzi, si deve considerare interminabile, che termina solo per ferma volontà del compositore musicista, ed che è così ampio è racchiusa tutta la resistenza che si può dispiegare in una vita.

E poco conta che sia una sala da concerto o un club, solamente degli arraffoni imparruccati possono realmente pensare che le rivoluzioni si facciano dalla cattedra, forse per questo l’Italia non è mai cambiata, conta solo una cosa: questa musica, con la sua pervicace insistenza su una singola cellula musicale, manifesta quella forma ossuta e povera di reazione al sintomo più lascivo del capitalismo, ossia lo scopo. Questa tecnica raffinatissima, tutti questi elementi si uniscono per sfoggiare un dandismo sereno ma feroce al tempo stesso, un dandismo non di maniera come buona parte di chi si professa “rebelde”. No, il rifiuto dello scopo, il rifiuto della conclusione, lo smargiasso declino nei confronti dell’invito a una chiusura “classica” è il No più forte e resistente che si possa gridare contro un mondo che, ci piaccia o no, è capitalista. E io aggiungo per fortuna. Un mondo che però ha preferito ribaltare lo scopo, il capitalismo, con i mezzi, la tecnica,  trasformando la tecnica in uno scopo e dimenticando passo dopo passo il capitalismo ha già ingoiato questa resistenza. Perciò non bisogna smarrire la strada, o perdersi nel luccichio delle sale da concerto. Per questo è necessario andare avanti, trovare sempre qualcosa che sia un passo avanti.

Quindi, andando avanti, non solo noi tutti viviamo in un mondo che ha scordato quasi il capitalismo, millantando qualcosa di inverosimile, la rincorsa tecnica, come un suo rimasuglio. Ma quello spettro capitalista che ci è rimasto è ancora più bieco dell’originale: stantio, ripetitivo, vecchio, sinistro. Un prodotto malato, che solo l’arte può e deve contenere.

Bene, contro questa rincorsa verso un finito che è già morto, questo concerto, è il sintomo più elegantemente bretoniano, alla “Je m’en fous”, che si possa avere. E per questo meritava di essere vissuto, non solo visto.  Poi certo, anche questi artisti devono vivere. Ma spero lo facciano veramente a la Breton.