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“La casta morta”, quando la ribellione lascia un sapore agrodolce in bocca

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“La casta morta”, in scena al Teatro Studio Uno di Roma fino al 17 gennaio, un soggetto di Luigi Marinelli e Michele Sganga, testo di Adriano Marenco, è l’omaggio di una città stanca a un grande autore, Tadeusz Kantor; una città stanca di prendere parte alla solita recita di un potere che si autocelebra.

Ma è davvero così innovativa la ri-lettura di un testo di Kantor come “La classe morta”? Alla domanda ci sono due risposte, una negativa e l’altra positiva. Sì, è utile riproporre un testo così contaminato di presente, perché si rischia di diventare così assuefatti alle dinamiche di un potere auto referenziale che non si è più in grado di ritrovare la strada del “Bosco”, della ribellione. Eppure, c’è anche un “no”, perché la lotta contro il potere nasconde sempre un altro potere pronto a prendere il posto di quello vecchio.

Una classe di cerebrolesi che controlla, che si sazia del proprio sangue, auto referenziale anche nel sesso, tiene in pugno il mondo nella sua interezza, cupa e senza senso.La-casta-morta_7-17-gennaio_Teatro-Studio-Uno_foto5-752x440

Ma c’è la redenzione che viene da lontano, introdotta da una premessa dal sapore alla Burri e del suo teatro continuo, che porta in scena il ritorno di Odisseo. Questo vecchio marinaio, sagace usurpatore della Verità. Però che strano… immaginare che a redimere l’umanità sia il Principe della Menzogna è veramente il segnale della decadenza dei tempi? O forse è solo una fotografia sbiadita della verità.

Lo spettacolo è irriverente, ma non innovativo. Si inserisce nel filone del potere dell’arte che combatte un altro potere. Ma il potere si nutre sempre di chi soddisfa. “La casta morta”, spiega il regista, vive solo per se stessa. Ma questo non è innovativo, ogni gruppo vive per se stesso e per aumentare il proprio potere. La compagnia è stata brava. Tutti. Si sono calati nella doppiezza del personaggio, infantile e adulto, con sagacia ed eleganza.

Innovativo è il mito che torna a riportare ordine. Ma anche questo è un mito wagneriano, dalle radici già esaurite.

É uno spettacolo che, proprio per questa sua natura ondivaga, va visto, va assaggiato. Come un frutto agrodolce che lascia nella bocca il sapore più diagonale che ci sia.