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Il ritorno della risata continua: “Miseria e Nobiltà” di Pietro Romano al Teatro delle Muse

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Istintivamente la visione di una commedia viene associata alla risata che si leva tra le fila della sala. Tra battute e motti di spirito, la rappresentazione comica prosegue coinvolgendo  gli spettatori, per offrire una divertente evasione. Per suscitare il riso, è necessario che il pubblico sia disposto a comprendere la comicità recitata, a identificarsi con essa. Il fragore della risata è il rumore della quarta parete che si infrange, è la risposta di chi guarda all’azione di chi recita. La commedia è il gioco scambievole di parole e  gesti consueti che si deformano nei loro tratti normali per tendere a aprire il varco che separa la scena dalla sala di un teatro e che ha la riprova del suo esito nel momento in cui si dischiudono anche le labbra degli spettatori in sorrisi sonori come le risate. Il comico non si limita alla risata: questa risulta come culmine dello scambio visivo-comunicativo tra pubblico e attori.

Quando la risata è continua, la sinestesia  è travolgente: si ripetono le risate al Teatro delle Muse nel ritorno a gran richiesta di Pietro Romano dopo il debutto a inizio stagione dal 29 marzo al 9 aprile a Roma presso il Teatro delle Muse con lo spettacolo “Miseria e Nobiltà” liberamente tratto dall’omonima opera di Scarpetta, da lui trasposta in dialetto romanesco, diretta e interpretata. La trama si svolge attraverso l’abilità istrionica di Pietro Romano, nel ruolo del protagonista Felice Sciosciammocca insieme Marco D’Angelo (Pierino), Marina Vitolo (Bruttia), Beatrice Proietti (Pupetta), Edoardo Camponeschi (Eugenio), Valentino Fanelli (Appio/Giovanni), Eleonora Manzi (Gemma), Francesca La Scala (Rosa) e Mirko Susanna (Bamba), Giorgio Giurdanella (Cuoco).

L’originale napoletano viene riproposto e riadattato a una vernacolarità che restituisce la commedia attraverso una romanità irriverente e audace. Fraintendimenti, equivoci, storie d’amore e colpi di scena si intrecciano a personaggi tipici che non si riducono a semplici maschere ma evolvono sulla scena e si costruiscono in fieri tra le risate suscitate. Il dialetto romanesco trasferisce nella gestualità napoletana un tratto di pungente sarcasmo che ben si addice allo scenario popolare e la traduzione linguistica si mantiene nel solco di una comicità autentica e pervasiva.