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Il Sogno di Ipazia, una reminescenza che lascia inalterati

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“Il Sogno di Ipazia”di Massimo Vincenzi, interpretato da un’eccelsa Francesca Bianco, e diretto da Carlo Emilio Lerici è uno spettacolo critico, la cui criticità risiede proprio nell’importanza del soggetto toccato nonché nella facilità con la quale alti temi, come questo,  riescono a muoversi da pancia a pancia riscuotendo spesso un favore non dovuto né tanto meno meritato proprio a causa di quel mondo emozionale, empatico, ancestrale nonché archetipicamente collettivo da questi smosso.

“Il sogno di Ipazia” è uno spettacolo che va trattato su tre livelli, quello del testo – debole e fuorviante, quello dell’interprete – di una bravura struggente e magnetica, quello della regia, interessante e esatto.

Il primo livello non risulta essere adatto al soggetto, l’identità storico-culturale di Ipazia qui si riduce a quella di una donna fragile, lontana da suo padre e dai suoi alunni; una donna che parla della sua bellezza, e della sua vanità, per poi accendersi lungo il filo della narrazione su nodi universali quali la vera natura di Dio e la distorsione che ne fa costantemente l’uomo accecato dal filtro della paura, temi che per la vacuità del monologo scritto si disperdono in un vociferare di fondo, quello del mondo di cui facciamo esperienza quotidianamente, da cui non molto si discostano se in questo modo trattati.

Qui non è ciò di cui si vorrebbe parlare che lascia basiti, ma come se ne parla, come l’autore  riduce scioccamente la complessità storico-culturale di Ipazia, come donna, come astronoma, come matematica, in dei risvolti considerati dall’autore tipicamente femminili  quali la vanità e l’accenno alla propria bellezza, qui risultanti completamente fuori luogo; qui quello che ci si chiede è come questa filosofa e sapiente presenza del passato venga riportata in scena, come questa venga rivista dal testo proposto e allo stesso tempo in parte screditata.

“Il Sogno di Ipazia” appare come un testo  che non centra le peculiarità del vissuto di colei che è stata a capo della scuola di Alessandria, ponendola come un escamotage a genesi di un discorso circa la persecuzione, la paura, la diversità, il diritto positivo e il diritto di natura, quasi a rispolverare immaginari condivisi,  di cui una eco lontana sarà l’Antigone, tutto questo però con un monologo che non riesce a entrare nella carne del discorso trattato e che ne disperde nella sua stessa pomposità il senso.

Il secondo livello – quello interpretativo, risulta essere eccellente, Francesca Bianco riesce ad innalzare il testo donandogli potenza e valore; il suo corpo, la sua gestualità, il suo viso vivono il senso di follia, fragilità, smarrimento esperito da chi si arrende, in balia delle stelle, al disfacimento di un mondo conosciuto e allo stesso tempo estraneo che mostra nel suo incedere il suo volto più feroce. E’ il suo interpretare un’emozionalità profonda, segnata nella sua voce, decisa nella sua ritmica e dizione, forte nella sua ragione. Eccelsa impersonificazione, magnetica incarnazione, in un monologo fermo che cattura lo spettatore dall’inizio alla fine, per poi liberarlo in uno scrosciare di applausi.

La regia di Carlo Emilio Lerici riempie la scena sapientemente aprendo lo spettacolo con sette leggii, reminescenza delle sette arti liberali del Basso Medioevo, e libri di astronomia, geometria, matematica, i quali creano la cornice adatta al tempo narrato; le luci, e il loro alternarsi, accompagnano l’interprete e l’autorità politica-religiosa nel dispiegarsi della storia, smorzando e intensificando accadimenti, emozioni, frammenti del testo.

Nel complesso, con dispiacere, un riadattamento che non lascia il segno.

Joele Schiavone