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“Le prenom”, una generazione allo sbando in scena al Parioli

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Rappresentato per la prima volta a Parigi nel 2010 e candidato successivamente ai Prix Molière con ben sei nomination, Le prénom (Cena tra amici) nasce come testo teatrale originale di Matthieu Delaporte e Alexandre de La Patellière, poi ridotto in versione cinematografica dagli stessi autori nel 2012 e riproposto con successo nella trasposizione italiana “Il nome del figlio”, diretto da Francesca Archibugi (2015). Un meccanismo narrativo perfetto, prima di tutto a livello drammaturgico, ma in grado di adattarsi perfettamente anche alle esigenze di una sceneggiatura: le dinamiche relazionali di
questo gruppo di “amici”, circoscritte in un unico luogo e situazione tipo, si prestano ancor di più ad essere messe sotto la lente d’ingrandimento impietosa della macchina da presa, a palesarne le ipocrisie latenti. Lo spettacolo, in scena al Teatro Parioli e diretto da Antonio Zavatteri, è prodotto dallo Stabile di Genova e riadattato da Fausto Paravidino. A dividersi questo salotto intellettuale borghese di sinistra sono Alessia Giuliani (Elisabeth Garaud- Larchet), Alberto Giusta (Pierre Garaud, suo marito), Davide Lorino (Claude Gatignol,amico di infanzia di Elisabeth), Aldo Ottobrino (Vincent Larchet, fratello di Elisabeth, amico di infanzia di Pierre) e Gisella Szaniszlò (Anna Caravati, compagna di Vincent). Nel pour parler generale tipico di queste serate, in cui gli ospiti arrivano a scaglioni e qualcuno si fa sempre attendere più degli altri, si scatena la curiosità generale riguardo il nome che Vincent e la ritardataria Anna daranno al figlio che aspettano. E proprio a partire da un diversivo apparentemente ingenuo, la discussione degenera in un gioco al massacro che investe in maniera impietosa valori e scelte personali. Tra offese reciproche che non mancano di ferire tutti (nessuno escluso), nasce così il ritratto di una generazione allo sbando, dove tutti hanno qualche segreto da nascondere o da rinfacciarsi. Ottimi e credibilissimi nei loro rispettivi ruoli gli attori, che fanno della recitazione naturale e di un estremo ascolto reciproco il punto di forza dello spettacolo, favorito a sua volta da una regia semplice e al servizio del testo. Dietro quest’aura del “va tutto bene” si smaschera così un castello di carte estremamente fragile, che tradisce la superficialità estetica e perbenista non solo di una generazione e di uno status sociale, ma anche dei rapporti in senso stretto, nel bene e nel male in parte sorretti da dinamiche psicologiche perverse al limite del morboso. Da vedere, per rivedersi un po’.