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Lo spettacolo diventa esibizione della vita intima: “No Hamlet. Please”

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“Ciò che vive deve pur morire, dal mortale passando all’immortale.” È questa la legge di natura che la  Regina Gertrude nonché madre di Amleto rievoca al figlio, sentenza perentoria che vuole così ricordare la morte del consorte. Legge di natura che in quanto tale riesce a distaccarsi dal caso particolare per assumere una valenza universale. Ineluttabilità della fine, ma allo stesso tempo un nuovo punto di vista sul termine, non più negazione assoluta e nulla, ma passaggio, movimento e cambiamento.

Questa è la condizone   dell’uomo e di ciò che è umano, per appartenenza o origine. Etimologicamente tra i prodotti dell’uomo la poesia ne è l’emblema: dal verbo greco poiéo ( fare) la poesia è quel produrre umano, destinato alla stessa caducità del suo produttore. Uno statuto di precarietà e instabilità che si riscatta nella trasformazione e nella capacità di metamorfosi: la poesia condivide la labile fugacità dell’essere cui appartiene e necessita dunque di adattarsi a questo divenire senza soccombere.

La poesia si riscopre nel teatro, come teatro poetico, meno discorsivo e maggiormente indirizzato alla formazione e creazione di nuovi spazi all’interno di un panaroma  in cui le attuali forme di conoscenza e di comunicazione richiedono un continuo riadattameno: questa è l’idea che ha guidato il progetto di studio di Riccardo Vannuccini nella realizzazione del suo spettacolo “No Hamlet. Please” , in scena  al Teatro India dal 7 al 11 dicembre.

Fare teatro riacquista una dimensione pratica nascendo proprio dall’esperienza viva del regista, che ha lavorato in Libano, Giordania, Palestina, Iran in uno scenario reale della tragedia della guerra per un teatro mai avulso dalla realtà, in cui la finizione aiuta a conoscere, ad esempio il clima bellico e il dramma esistenziale di migranti e rifugiati, che non possono che rifiutare un teatro chiuso nella propria fortezza intellettuale. “No Hamlet. Please.”Hamlet diventa una risposta negativa a se stesso e quella che è stata ed è una della tragedie shakespeariane più note e rappresentate  viene negata, con riguardo per essere restituita come traccia, indicazione frammentaria nell’interpretazione di un mondo che va a pezzi, lacerato da opposizioni e contraddizioni, esemplificate nominalmente dalla figura di Amleto. Il testo teatrale si smembra in una pluralità di frammezzi poetici, da Franz Kafka, Ingeborg Bachmann, Walter Benjamin, Colette Thomas, Patrizia Vicinelli, ma le parole sono spesso incomprensibili anche a causa della lingua straniere e scivolano in secondo piano per dare spazio all’azione più che al racconto.

Il progetto di composizone scenica unisce i giovani attori della Scuola di Teatro e Perfezionamento Professionale del Teatro di Roma (Maria Teresa Campus, Vincenzo D’amato, Stefano Guerrieri, Chiara Lombardo, Caterina Marinoe, Eva Grieco, Lars Röhm, Capucine Ferry)  con i richiedenti asilo della Refugee Theatre Company (Lamin Njie, Yaya Jallow, Yeli Camara, Lucky Emmanuel, Joseph Eyube) per rendere l’attore nuovo strumento di incontro  del contemporaneo. Lo spettacolo diventa esibizione della vita intima: l’esito di Hamlet è un indagine che riesce a cogliere il presente e la sua contradditorietà attraverso un testo che si trasforma in azione scenica, con un poesia che si adatta a un mondo che è un susseguirsi di fatti e parole vane e vuote, purtroppo a spese di una tradizione letteraria e poetica che sembra non poter essere accolta e recepita nella sua integrità perché sentita ormai distante (ma forse semplicemente perché non si è più in grado di ascoltare).