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Ogni atto è un simbolo*

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Il 25 Marzo al Teatro Abarico è andato in scena “Psicosi delle 4:48” scritto da Sarah Kane , qui diretto da Ivano Capocciama e interpretato da Rossella Rhao.

Il testo teatrale si staglia come uno dei testi più complessi fuoriuscito dall’ultimo secolo, presentandosi al lettore, e allo spettatore, come un flusso di coscienza alterato in cui la psicosi individuale incontra le nevrosi collettive.

In questo scritto – quasi fosse un testamento esistenziale – Sarah Kane rivela il suo essere con tutto il suo disagio, portando in superficie vissuti di scissione; rabbia; incomprensione; depressione; autolesionismo; odio di un sé frammentato, non amato dall’altro e quindi rifiutato e allontanato dal proprio esistere; in queste sue parole ritroviamo una critica continua alla psichiatria contemporanea, un (non) senso ricercato e ancora mancato, uno spasmodico bisogno d’amore – ferito, massacrato, sedato, violato.

Entrare in questo universo –  anche solo per la semplice regia e interpretazione teatrale, vuol dire immergersi nella sofferenza, o peggio – nella profonda angoscia e disperazione che può provare  una persona che non trova luce né pace per poter respirare; entrare in questa narrazione vuol dire conoscere  una donna a cui manca una quotidianità o una modalità di essere che le permetta l’incontro con sé stessa ( una sé stessa fra l’altro che si avverte come maschile “leilui l’ermafrodito ferito (…) annegherò nella disforia(…) credi che sia possibile che una persona nasca nel corpo sbagliato?”  e che qui contrariamente viene messa in scena nei panni di una bambola ).

Lo scoppio esistenziale che Sarah Kane ci porta, non è solo la schizofrenia dell’esistere, ma è una ferita antica in cui le voci giudicanti di ogni altro:  tagliano, seghettano, violentano, massacrano costantemente il proprio esistere. Mi chiedo allora se sia possibile ad oggi, portare in scena un testo del genere, senza aver provato o sentito empaticamente ciò di cui qui si parla e si esiste: un’angoscia e dolore senza più tempo, puri nel loro richiamo luminoso di folle morte ( a cui si riferisce l’ora del titolo: 4:48, come orario in cui vengono registrati la maggior parte dei suicidi ).

Lo spettacolo portato in scena da Ivano Capocciama non sembra arrivare al cuore del testo, scimmiottando solo un dolore che qui non si riesce a cogliere, così come gli psichiatri citati dalla Kane qui quello che sembra andare in scena  è un lavoro sui sintomi, sulla follia dei linguaggi – istrionismo dei più poveri, senza che si riesca a toccare la profondità di una donna, di un uomo di cui queste parole vanno narrandoci l’abisso, l’esistenza – spezzata realmente da un suicidio.

Ancora l’errore, qui del regista, di vedere nella psicosi solo la psicosi e non quello di cui questa ci parla, non ciò di cui questa diviene simbolo e linguaggio. Uno spettacolo così che non convince, stagliandosi su una superficie da cui si fa fatica a scendere.

*da Psicosi delle 4:48, di Sarah Kane.