“Schwarz auf Weiss“, nero e bianco, luci illusorie che si alternano ad ombre. Un paesaggio di cui ci parla Heiner Goebbels. Un paesaggio con elementi jazz e sperimentali, tipici di una costruzione musicale che si ritrovano in Maestri come John Cage. Un paesaggio che ci pone fuori dalla vita, in una spoliazione totale di speranza, in cui non si fa fatica a riconoscere un’opera nata dalla morte di un amico e collega: Heiner Müller.
Questo paesaggio rotto, come una visione onirica, porta lo spettatore all’interno di un sogno lucido in cui suoni, voci e rumori si alternano ripetutamente ad “azioni nevrotiche”, sempre più isteriche, sempre più veloci, sempre più automatizzate, tra cui si scorge la perdita dell’uomo, del senso del suo esistere e stare nel mondo.
Goebbels non lascia spazio alle illusioni. E’ supportato da un gioco d’ombre perfetto (creato da Jean Kalman), ci porta ad una destrutturazione d’ogni piano, fino ad arrivare alla destrutturazione del teatro stesso attraverso l’aggiunta in scena di tecnici, geometri, operai e la caduta di due pareti, simbolo della divisione tra realtà e finzione, tra spettatore e teatrante, tra fenomeno e un noumeno che non si riesce mai ad afferrare se non in un’illusione effimera il cui destino sarà cadere.
Gli abitanti di questo paesaggio si muovono sulla scena, ora assorti, ora presi dall’azione. Qui una serie di panche divengono altare di urne cinerarie che si susseguono e, in mezzo a loro, diversi uomini e donne tra le note di una solitudine calibrata da assoli strumentali di violini, clarinetti e trombe. Al solipsismo dello strumento si contrappongono delle voci, poi un quintetto d’archi, poi ancora voci a ricordare il richiamo delle sirene di Ulisse.
“Un peso mortale gravava su di noi”- queste alcune delle parole tratte da “L’ombra, Una Parabola” di Poe che lo spettatore potrà leggere al di sopra della scena – “tuttavia noi ridevamo ed eravamo allegri alla nostra maniera”. Una maniera che indica la follia, la frenesia toccando l’eresia. Non c’è speranza, se non in un’illusione irreale; il giorno e la notte si susseguono sul palco ed è proprio il giorno a rendere ancora più disperata e a far luce su un’esistenza che non trova il senso di se stessa.
Tutto è effimero, tutto destinato alla morte, tutto una corsa contro il tempo che porterà allo stesso identico risultato. Un uomo sul palco brucia un pezzo di carta; questo vola e poi svanisce. L’uomo prende dalla tasca un altro pezzo di carta, accosta il fuoco; la carta vola e poi svanisce. L’uomo prende un altro pezzo di carta dalla tasca, lo brucia; questo vola, va verso l’uomo e poi svanisce. L’uomo tenta, continua, riprova, ma ciò non cambierà che il pezzo di carta, una volta accostato al fuoco brucerà. Diverrà cenere e poi svanirà.
Ester Schiavone