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Grande Guerra. E la voce di Diaz fu registrata per i posteri…

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Bisognerà aspettare il 27 giugno per visitare, a tremila metri di quota, sulla Marmolada, il museo della Grande Guerra più alto del mondo. Tanti però, in tutta Italia, i luoghi per ricordare quel 24 maggio 1915. Cent’anni fa, e sembrano anche di più. Per fare un solo esempio, di tipo militare, non esisteva l’Aereonautica. I primi sperimentali velivoli erano stati impiegati in ambiente bellico tre anni prima in Libia. Cent’anni che sembrano tre secoli.
Nel 1914, quando la guerra cominciò, Roma era ancora legata dall’alleanza con gli Imperi  Centrali. Poi il Patto di Londra, segreto, che avrebbe garantito il completamento dell’unità nazionale. Per Trento e Trieste l’Italia si mobilitò, con qualche freddezza e numerose resistenze interne. La propaganda interventista dei nazionalisti – e dell’ex socialista Mussolini – era vivace, almeno quanto quella dei neutralisti.
Alla fine, il Re Vittorio Emanuele III affidò al governo Salandra poteri speciali, e gli ordinò di incaricare l’ambasciatore a Vienna di consegnare la dichiarazione di guerra al governo austroungarico. Era il 23 maggio. A Vienna si comunicava che il 24 l’Esercito italiano avrebbe cominciato le operazioni sui confini. “Cittadini e soldati, siate un esercito solo! Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento”, questo l’appello del Re d’Italia.
Le Forze Armate non erano in realtà preparate, mentre gli austriaci avevano capito, e seppero contrastare le prime azioni sul fronte sud-est. Salandra si era illuso che la guerra sarebbe finita in pochi mesi, prima dell’inverno. Durò fino al 4 novembre 1918. “Inutile strage”, la definì nel 1917 Papa Benedetto XV, che vedeva nazioni cattoliche scontrarsi in un conflitto divenuto terribile.
Per l’Italia, tuttavia, la Grande Guerra rappresentò, al di là della retorica, una svolta epocale. “Non soltanto – rileva lo storico Francesco Perfettila conclusione del processo risorgimentale, ma anche qualcosa di ben più importante e di più profondo e duraturo: fu lo strumento grazie al quale si rafforzò l’identità nazionale, si sviluppò il senso di una comune appartenenza allo Stato unitario costruito nel tempo attraverso tanti sacrifici e tante lotte” (Francesco Perfetti, La Grande Guerra e l’Identità nazionale, Le Lettere 2015).
La guerra, inoltre, chiuse quella che fu definita la Belle Èpoque, una anticipazione elitaria della modernizzazione del paese. E proprio in tema di modernizzazione, chi non conosce le parole del Bollettino della Vittoria, firmato Diaz? “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
Parole pronunciate dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito nella sede del Comando Supremo, a Mogliano Veneto, alle 12 del 4 novembre 1918. Sono state ascoltate e riascoltate all’infinito. Ma come è stato possibile, visto non furono pronunciate alla radio? Radio che ancora non era stata inventata. E non erano neppure state registrate su disco in vinile, come allora si usava.
Come raccontano Piero Cavallari e Antonella Fischetti nel libro (Voci della Vittoria. La memoria sonora della Grande guerra, Donzelli 2014), dobbiamo la voce di Diaz a un intraprendente uomo di spettacolo molto legato al futurista Marinetti, Rodolfo De Angelis. L’idea era tramandare su disco la voce delle più significative personalità dell’epoca, nella raccolta “La Parola dei Grandi”. Armando Diaz registrò dunque il Bollettino della Vittoria a posteriori, per la cronaca nel gennaio del 1925, nella sua casa romana. Non falso storico, dunque, ma artificio artistico. Che ancora oggi, tuttavia, conservato dalla quella che fu la Discoteca di Stato, rappresenta una testimonianza viva della Grande Guerra ormai vittoriosa.