Home oltre Roma “SOLE Sun-Alone” di Valentina Capone al Florian di Pescara

“SOLE Sun-Alone” di Valentina Capone al Florian di Pescara

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Valentina Capone torna in scena con “Sole (Sun-Alone)” uno spettacolo per certi versi iniziatico all’interno di un percorso artistico che ha conosciuto fasi diverse, ma che non può prescindere dalla formazione artistica con Perla Peragallo prima e con Leo De Berardinis poi. “Sole” è un lavoro che risale al 2002, quando debutta in forma di primo studio, e trova una sua definizione solo diversi anni più tardi. Da questa breve “anamnesi” del caso, si può già intuire il grado di coinvolgimento personale che investe lo spettacolo dalla prospettiva della sua interprete ed autrice, riconnettendola istantaneamente con un momento storico vibrante. Si ritrovano nell’allestimento di “Sole” singole idee o illuminazioni condivise con Leo De Berardinis in fase di puro progetto, ma il lavoro segna anche e soprattutto il principio di un periodo lungo e doloroso (la malattia e la scomparsa di Leo), dove si ramifica per Valentina Capone il solco di un sentiero artistico individuale, inteso come aspra necessità prima ancora che come momento evolutivo e di emancipazione. Il titolo sembra richiamare proprio l’alba di un indomani carico di incertezza così come legato alla sola certezza di ciò che abbiamo lasciato o che ci ha lasciato. In questo intrico di motivazioni personali ed artistiche, l’attrice reperisce il suo percorso autorale nella parola magmatica di Euripide, componendo un patchwork di assoli ottenuti tramite la manipolazione di passaggi tratti da “Le Troiane” ed “Ecuba”, con incursioni nella spietata fragilità di Sarah Kane conditi da contributi più eminentemente personali. La matrice classica del progetto si proietta sulla scena nella forma di oggetti dalla simbologia ancestrale o dalla potenzialità fortemente simbolica, su cui spicca l’utilizzo delle maschere. Sul piano della meccanica scenica, è però la neutralità di un trittico di sedie a dettare i tempi dello spettacolo e della recitazione. Lungi dal rappresentare la postazione per momenti di narrazione, le sedie diventano i tre luoghi deputati di un cerimoniale criptico, dove la performer cerca ciclicamente trasformazioni corporali ed identitarie, giocando con i toni vocali tra il grave e l’arcano. Sul piano visuale, Valentina Capone alterna pose statuarie che richiamano il nucleo classico di partenza con momenti di farsa in salsa pop, per poi virare verso evoluzioni meno definibili, che si riempiono del lavoro di sperimentazione e ricerca sul linguaggio del corpo. Il movimento ramingo dell’attrice si spezza più volte con accelerazioni repentine che impediscono l’abbandono ad una percezione univoca dell’azione in scena. In questa frammentazione, la solitudine della figura femminile supera ogni tentazione di riaffermazione rispetto al maschile, facendosi latrice di sole parole di unione. Anzi, ogni opposizione di categoria svanisce e le trasformazioni dell’attrice si fanno prossime ad una muta di pelle e squame sotto il faro alto del primo astro.

 

Paolo Verlengia