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Dacia Maraini e l’orrore della mafia in “Mi chiamo Antonino Calderone”

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La Compagnia del Teatro Artistico d’Inchiesta accompagna lo spettatore in un percorso di vita; quella di Antonino Calderone, ex boss mafioso, pentito, collaboratore di giustizia. La vicenda si svolge a partire dai primi anni del dopoguerra, quando Cosa Nostra è in piena evoluzione, fino agli ultimi anni del novecento, con la latitanza e la collaborazione con Giovanni Falcone. La deposizione di Calderone, infatti, si inserisce in un’Italia che non conosce ancora la struttura delle grandi famiglie siciliane.

L’autrice Dacia Maraini riesce, con questo testo, a far rivivere gli orrori della mafia: la narrazione incalza lo spettatore in un susseguirsi di omicidi, stragi, intimidazioni, nomi di affiliati mafiosi, con relativi soprannomi, ora carnefici, ora vittime. Sangue che chiama sangue. La narrazione crea una cruenta ragnatela, legata al mondo mafioso, che colpisce col suo orrore.

Un solo attore in scena: David Gramiccioli; che riesce nel difficile compito di dare voce alla deposizione del protagonista. Da solo, sostiene la responsabilità di portare in scena un testo così carico di significato, aiutato dalla regia di Angela Turchini.

La scenografia è semplice, minima: una scrivania, una candela accesa, qualche libro, un registratore. L’attore catalizza tutta l’attenzione, riuscendo comunque a tenere alta l’energia per tutto lo spettacolo.

“Mi chiamo Antonino Calderone” sembrerebbe una frase normale, sono parole semplici, ma che nel contesto dello spettacolo segnano l’inizio di una narrazione di mostruosità senza fine.

Come disse Giovanni Falcone: “Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che quando si tratta di rimboccarsi le maniche ed incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare. Ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare”.Antonino Calderone ha avuto il coraggio di cambiare. Forse, alla fine, era veramente un uomo d’onore.

Luca Monari